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IL LIBRO

Perdonare sì, dimenticare mai. Ispirato da questa massima Franz Thaler, classe 1925, racconta gli anni più bui della sua vita. Nel 1939, durante le Opzioni in Alto Adige, il padre di Thaler decide di rimanere in Italia invece di emigrare nel Terzo Reich. Da un giorno all’altro il giovane Franz si trova in balia dei maltrattamenti dei nazisti altoatesini e dei loro simpatizzanti. Pur essendo un “Dableiber” – un restante – e quindi un cittadino italiano, nel 1944 gli viene recapitato l’ordine di arruolamento nell’esercito di Hitler, spingendolo a fuggire sulle montagne. Solo quando il pericolo di rappresaglie contro la sua famiglia si fa concreto Thaler si costituisce. È l’inizio di una travagliata odissea che lo porterà, passando per varie carceri, fino al campo di concentramento di Dachau e, temporaneamente, nel lager satellite di Hersbruck. Tornerà a casa nell’agosto del 1945; un ventenne dal fisico martoriato e dall’animo affranto.

Franz Thaler racconta le sue memorie con un linguaggio austero e asciutto ma coinvolgente. Il suo libro, che ha visto varie riedizioni, è un classico della storiografia moderna altoatesina.

“Attenta unicamente alla verità della propria testimonianza, la voce di Thaler giunge diretta, familiare; raccolta in sé, può sembrare talvolta quasi sommessa, come tutte quelle che provengono da un lungo silenzio. Preziosa proprio per questo.”

Carlo Romeo, storico

“In un paesino tirolese ci aspettava Franz Thaler eroe novantenne sopravvissuto ai campi di concentramento, antifascista ieri, oggi e domani … Aveva fatto la cosa giusta al momento giusto.”

Luis Sepúlveda, Ritratto di gruppo con assenza

BIOGRAFIA DELLAUTORE

Nato nel 1925 in Val Sarentino da una numerosa famiglia di piccoli agricoltori, Franz Thaler frequentò l’allora scuola italiana fascista. Nel 1939, l’anno delle Opzioni, suo padre scelse di rimanere in paese; Franz e i suoi sei fratelli minorenni divennero “Walsche” (dispregiativo per italiani), come si diceva allora. Durante il 1944 sarebbe dovuto partire per la guerra; decise però di non obbedire alla chiamata alle armi e fuggì. Dopo alcuni mesi fu costretto a consegnarsi ai nazisti per evitare ritorsioni nei confronti dei genitori. Da quel momento ebbe inizio la sua via crucis che attraverso prigioni lo condusse all’internamento nel campo di concentramento di Dachau. Tornò a casa nell’agosto 1945, ventenne, fisicamente e psichicamente distrutto.

Traduzione: Peter Litturi

© Edition Raetia

Grafica di copertina: Dall’O & Freunde

ISBN Print: 978-88-7283-206-6

Per consultare il nostro catalogo: www.raetia.com

PREFAZIONE

È giusto che ad inserirsi in questo momento di riflessione sulle «opzioni» sia l’edizione italiana delle memorie di Franz Thaler. Il lettore non s’imbatterà nell’ennesima rievocazione storiografica in senso stretto; del resto, con sollievo, non vi troverà nemmeno un’ombra di quella astratta retorica della «reciproca conoscenza» alla quale è stato abituato sinora.

Questo libro nasce da memorie inizialmente stese per i familiari. Ciò ne spiega l’immediatezza e la schiettezza tali da porlo al confine di quella particolare categoria che è la scrittura popolare; il «mare sommerso» delle piccole, oscure storie individuali con cui la storiografia dovrebbe sempre confrontarsi. E nasce soprattutto da quell’invincibile bisogno di raccontare e raccontarsi proprio di chi avverte la propria esperienza come emblematica di qualcosa di più vasto, che in qualche modo lo trascende ed investe tutti gli uomini. Ed avverte la propria testimonianza come un dovere non più rimandabile.

La storia dei ‹Dableiber› è il dramma di una doppia sconfitta. Osteggiati e perseguitati sino alla fine della guerra, hanno avuto un periodo di relativo riscatto finché l›assunzione delle loro posizioni è servita ufficialmente da contraltare al collaborazionismo nazista sudtirolese. In seguito la loro voce è stata nuovamente messa in disparte, come per evitare la necessità di un doloroso ripensamento collettivo.

Da parte italiana vi è stata del resto una scarsa attenzione nei loro confronti per un certo desiderio di monopolio della resistenza antinazista in Alto Adige. E dal canto loro i ‹Dableiber› hanno sentito l’appello all’unità e alla concordia della propria comunità come una necessità etica prima che politica. Ma perdonare, avverte Thaler, non può voler dire dimenticare. Il titolo del libro, così perentorio, è lo scioglimento definitivo di un dubbio che deve averlo angosciosamente tormentato in questi anni.

Sin dall’opzione, determinata dal padre a causa della sua minore età e che per la prima volta gli fa sentire l’amarezza dell’emarginazione da parte dei coetanei, le vicende della «grande storia» sembrano passargli sopra, apparentemente al di là di ogni possibilità d’intervento. Eppure giunge anche per lui il momento della prova. Di fronte all’ordine di arruolamento in un reggimento di polizia la scelta di Thaler è consapevole e definitiva; il suo rifiuto lo porterà, dopo il periodo «alla macchia» e la sua volontaria consegna per evitare ritorsioni sui familiari, all’internamento nel Lager.

Ed anche nell’«universo concentrazionario» di Dachau, contro la logica dell’impotenza e dell’annichilimento, egli si aggrappa con tutte le sue forze all’unica risposta, all’unica reazione che può dare: l’intima, reiterata affermazione dei valori vitali contro l’ideologia della morte.

Il candore, la straordinaria capacità di Thaler di stupirsi incessantemente di fronte all’ingiustizia, sono da lui stesso ricondotti al nucleo più profondo della sua esperienza: l’asseverazione del suo senso cristiano della sofferenza e della speranza.

Attenta unicamente alla verità della propria testimonianza, la voce di Thaler giunge diretta, familiare; raccolta in sé, può sembrare talvolta quasi sommessa, come tutte quelle che provengono da un lungo silenzio. Preziosa proprio per questo.

Carlo Romeo

E chi tra noi qui vigila

e chi ci avverte

se arrivano i nuovi carnefici?

Ed hanno veramente

una faccia diversa dalla nostra?

E Kapo in giro ce ne sono ancora

che hanno fatto fortuna,

rispettabili, quella bella gente

riciclata nei posti che qui contano,

le vecchie spie che agivano nell’ombra –

ancora adesso ce ne sono tanti

che non vollero credere

ed anche adesso solo se costretti

Jean Cayrol/Paul Celan

Parigi 1955/56 (Notte e Nebbia)

trad.: Giancarlo Mariani

Nel maggio del 1985 visitai l’ex-campo di concentramento di Dachau dove, esattamente quarant’anni prima, per me e i miei amici, si erano aperte le porte verso la libertà. Giunto al campo mi recai subito al museo dove sono esposti diversi documenti e fotografie degli anni che vanno dal 1933 al 1945. Alla vista di certe immagini i miei occhi si riempirono nuovamente di lacrime. Assieme a me c’erano molti altri visitatori provenienti dai più diversi paesi e tra di loro un numero particolarmente elevato di giovani. Nei loro volti si leggeva l’orrore. Nella grande sala regnava un silenzio quasi totale. Si udiva solamente un lieve mormorio.

Nel pomeriggio visitai le due baracche ancora conservate. Poi il luogo dove molti furono impiccati, la cosiddetta fossa del sangue, dove molti furono uccisi con un colpo alla nuca ed infine il crematorio nel quale migliaia di uomini, diventati ormai scheletri o uccisi dalle botte, fucilati o morti per fame «sono passati attraverso il camino» dei forni, come era uso esprimersi a Dachau. Si possono ancora vedere le camere a gas, anche se non erano mai entrate in funzione. Coloro che a Dachau erano destinati alla morte venivano trasferiti in altri campi di concentramento.

Visitai infine le tre cappelle espiatorie costruite successivamente: l’evangelica, l’ebraica e – al centro – la «cappella dell’angoscia di morte di Cristo». A ridosso delle cappelle c’è il convento dei carmelitani e lì, nella chiesa conventuale, pregai per i miei compagni morti. Durante la visita pensai intensamente ai giorni e agli anni passati.

La mia strada per Dachau era segnata fin dal 1939. Nel giugno di quell’anno la Germania nazionalsocialista e l’Italia fascista diedero l’inizio al trasferimento dei sudtirolesi. Ci regalarono la cosiddetta opzione. La gente fu messa di fronte all’alternativa di optare per la cittadinanza germanica, coll’esplicito obbligo di emigrare nel Reich germanico, o di mantenere la cittadinanza italiana sotto la minaccia del divieto di ogni ulteriore richiesta di diritti di minoranza. Chi non si dichiarava sarebbe rimasto cittadino italiano. L’attuazione dell’accordo fu affidato al famigerato capo della SS e della Gestapo, Heinrich Himmler. A quel tempo io quindicenne, figlio di contadini, non sapevo né capivo nulla. Ricordo solamente il profondo spavento della gente quando seppe di quest’accordo. La maggior parte della gente non voleva crederci; non poteva essere vero, diceva.

Quest’era lo stato d’animo della gente della val Sarentino a luglio e anche all’inizio d’agosto, e probabilmente era lo stesso in tutto il Sudtirolo. Poi sempre più spesso si veniva a sapere di incontri segreti e di riunioni. Giunsero in valle dei gruppi canori bavaresi. Nella frazione di Unterreinswald furono ben accolti. Presto questi cantanti fecero la loro apparizione anche a Durnholz dove vivevo. Sul coro della chiesa cantavano canzoni tedesche. Poiché il loro arrivo era stato preannunciato affluì molta gente. Una volta il parroco fece un’osservazione pungente perché i presenti in chiesa si erano voltati spesso verso il coro. Egli disse: «Ci sono per caso santi più importanti lassù che sull’altare?» Credo che presagisse quello che ci aspettava. A settembre e ottobre le voci intorno ad una «votazione» si infittirono e anche i suggerimenti che naturalmente il voto doveva essere «tedesco». Prese così avvio una selvaggia campagna propagandistica. Era condotta dal «Völkischer Kampfring Südtirols» (VKS), un’associazione d’impronta nazionalsocialista che aveva propri affiliati distribuiti in tutto il Sudtirolo. Ma cosa potevo sapere io a quel tempo del VKS, di questa associazione nazionalsocialista. All’inizio anche quest’associazione era favorevole alla permanenza in Sudtirolo. Dopo alcuni colloqui avuti con Himmler mutò posizione di centottanta gradi. Ora perseguiva un risultato che fosse totalmente a favore dell’acquisizione della cittadinanza germanica e dell’emigrazione, per poter in questo modo contare a Berlino.

Questo risultato era in parte già stato preparato nelle scuole. Ricordo molto bene che da ragazzi a scuola recitavamo spesso: «Vater unser, der Du bist, der Mussolini auf dem Mist, den Schuschnigg daneben und der Hitler soll hoch leben.»*

L’opzione, questa «scelta-votazione», creò una profonda frattura nella popolazione, frattura che non risparmiò le singole famiglie della val Sarentino. Una parte optò per rimanere, per il «Dableiben», l’altra si entusiasmò per la «scelta tedesca», germanica. La propaganda favorevole al «Dableiben» era estremamente debole. Ma c’era un numero considerevole di persone che manteneva ferma l’intenzione, espressa a giugno, di farsi piuttosto fucilare che optare per l’emigrazione.

A quel tempo non vivevo presso la mia famiglia a Reinswald, ma da uno zio a Durnholz. Là ero trattato come un membro della famiglia.

Nel tardo ottobre venni a sapere che il canonico Michael Gamper aveva fatto una riunione a Reinswald, presso il maso Hofmann, durante la quale si era espresso con fermezza a favore del «Dableiben» e contro l’opzione. Anche il giovane contadino dal quale stavo, due sue figlie e il servo del vicino avevano partecipato a questa riunione. Erano tutti rientrati al mattino presto in preda a grande agitazione e durante la colazione raccontarono ciò che avevano sentito. Dissero che Gamper aveva chiarito alla gente la vera essenza del nazionalsocialismo e riferito della persecuzione attuata nei confronti della chiesa e della religione. Hitler ha già trascinato in guerra il popolo tedesco, aveva detto Gamper, e non si sa come andrà a finire. La gente doveva assolutamente tenersi stretta la propria patria, mai ne avrebbe trovata un’altra così. Le promesse della propaganda nazionalsocialista che in Germania sarebbero stati costruiti villaggi identici a Durnholz e Reinswald erano da considerarsi assolute fandonie. Che ogni emigrante avrebbe ottenuto una casa e un maso, identici a quelli lasciati, era una menzogna che si poteva toccare con mano.

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Assemblea in Val Sarentino (5-10-1940). In primo piano Peter Hofer, «Landesführer» del «VKS»

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Giuramento dei sarentinesi 1939 (1940?)

A quel tempo non avevo idea di chi fosse questo canonico Gamper. Solo al mio ritorno venni a sapere che egli era stato la guida spirituale della resistenza contro il fascismo e il nazionalsocialismo. Quando nel settembre del 1943 le truppe tedesche invasero l’Italia, Gamper si sottrasse a mala pena agli sgherri della Gestapo rifugiandosi a Firenze.

Il giovane contadino raccontò poi che durante la riunione un propagandista nazionalsocialista era entrato con forza nella stube e aveva gridato: «Ciò che quest’uomo dice sono solo menzogne, non credetegli!» L’uomo aveva perfino tentato di aggredire Gamper, ma alcuni partecipanti lo avevano afferrato e trascinato fuori dalla stube.

Alcuni giorni dopo ci recammo dal vicino per giocare a carte. Là incontrammo un venditore ambulante che stava passando la notte al maso e aveva partecipato a tutta la riunione tenuta al maso Hofmann. Tra l’altro raccontò anche quello che era successo dopo il discorso di Gamper. Quest’ultimo aveva detto che i presenti che avessero avuto l’intenzione di rimanere nella loro terra potevano fare subito la relativa dichiarazione, giacché egli aveva con sé i moduli necessari. A quel punto si era fatto avanti il vecchio orologiaio apponendo la sua firma. Poi, rivolgendosi a suo fratello, aveva aggiunto: «Stanis, firmi anche tu?» Allora anche Stanis si era avvicinato e aveva firmato per sé stesso, per sua moglie e per i loro sei figli minorenni. Mentre l’ambulante raccontava questi fatti sentii brividi freddi scendere lungo la schiena. Stanis infatti era mio padre e l’orologiaio mio zio. Qualcuno disse rivolto a me: «Tuo padre ha scelto ‹walsch› (bastardo-italiano); tu ora sei un ‹Walscher›.» Non sapevo cosa rispondere, ma già mi sentivo un emarginato. Allora per consolarmi la contadina disse: «Questo Franz lo ficchiamo in una cassa e ce lo portiamo clandestinamente in Germania.» Risero tutti, io però non ci riuscivo proprio. Tornammo a casa.

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Il padre Stanislaus Thaler

Fu questo il primo colpo che il nazismo mi aveva inferto.

Al maso si parlava poco di questi fatti. Il contadino era più incline al «Dableiben», i suoi fratelli invece erano per l’emigrazione.

La domenica successiva mi recai dai miei genitori a Reinswald. Volevo sentire quello che avevano da dirmi. Mi spiegarono perché avevano scelto «walsch», cioè di rimanere. Avevano voluto seguire i consigli di Michael Gamper e non volevano certo rinunciare volontariamente alla loro terra natìa. Mi ricordarono che già una volta, a causa di eventi avversi, avevano perduto la propria casa. Ora, con grande fatica e rinunce, erano riusciti a ricostruirsi una misera casupola.

Per sette anni mio padre aveva prestato servizio militare, di cui tre anni di servizio attivo e quattro anni in guerra. Era stato in giro per il mondo quanto basta e non aveva più voglia di andar via da casa un’altra volta. I genitori mi dissero: «Non te la prendere, se ti chiamano ‹Walscher›. Le voci secondo cui noi verremo trasferiti in Sicilia le hanno messe in giro i tedeschi, perché non vogliono permetterci di rimanere qui.» I genitori mi convinsero ed io trovai giusta la loro decisione.

Naturalmente non potevo raccontarlo ai miei colleghi optanti di Durnholz.

Passarono così le prime settimane del dicembre 1939. La propaganda e l’entusiasmo per la «scelta tedesca» crescevano.

La giornata dell’«opzione» doveva trasformarsi in una festa. In gruppo gli abitanti di Durnholz avrebbero dovuto recarsi al municipio di Sarentino, accompagnati dalla banda musicale. Questo era il progetto e l’intento dei maggiorenti di Durnholz. Questo loro obiettivo fu in larga parte raggiunto. A Durnholz c’erano solamente tre famiglie di cui si sapeva che avevano scelto di rimanere. Alcuni lo tenevano nascosto perché non volevano esporsi alla derisione e al disprezzo. I «Walschen» erano oggetto di derisione ovunque, anche in chiesa la gente ridacchiava e parlottava alle loro spalle. Sul sagrato della chiesa e lungo la strada per arrivarci, la gente li salutava con un sonoro «Buon giorno» (in italiano nel testo). Non potevano più frequentare certe osterie. In altre, la sedia dove si era seduto un «Walscher» veniva pulita. Dopo le opzioni del 1939 giunse a Durnholz un insegnante tedesco. Prima c’erano stati solo insegnanti italiani, che facevano lezione unicamente in lingua italiana. Il nuovo insegnante aveva il compito di fare lezione in tedesco.

Una domenica pomeriggio ragazzi e giovani si riunirono nella scuola. Ci andai anch’io senza immaginare nulla. Quando toccò a me volevo naturalmente dire il mio nome. Altri però mi precedettero gridando: «Ma questo è un ‹Walscher›.» Risero tutti. Per un po’ l’insegnante mi fissò, poi disse di tornarmene a casa, egli insegnava solo a ragazzi tedeschi. Impaurito e sconcertato mi alzai e uscii dalla porta con la testa che mi girava. Ero triste, molto triste.

Le cose continuarono così per alcuni anni.

Dal ’42 al ’43 molti furono chiamati a prestare servizio militare nella Wehrmacht tedesca. Non passò molto tempo e giunsero le prime notizie di soldati caduti al fronte. Ora, anche quelli che prima avevano spesso gridato ad alta voce «Heil Hitler» imprecarono contro lo stesso Hitler. Il grande entusiasmo per Hitler si spense piuttosto velocemente. Già si parlava del fatto che Hitler avrebbe potuto perdere la guerra.

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Franz Thaler diciannovenne

* «Padre nostro che sei, Mussolini è sul letamaio, a fianco ci sta Schuschnigg e un evviva a Hitler.»

FUGA IN MONTAGNA

Arrivò così il settembre 1943. Dopo la capitolazione italiana le truppe tedesche occuparono gran parte dell’Italia e naturalmente anche il Sudtirolo. Le provincie di Bolzano, Trento e Belluno furono riunite nella zona operativa chiamata «Alpenvorland». Il Gauleiter nazista di Innsbruck, Franz Hofer, fu nominato Alto Commissario di questa zona. Ora i pezzi grossi nazisti riebbero il sopravvento. I «Dableiber» furono sottoposti ad ogni possibile vessazione. Ai loro capi fu data la caccia come a dei criminali. A tutti i «Dableiber» furono sequestrati gli apparecchi radio e i fucili da caccia. (Nel dopoguerra il mio amico Friedl Volgger ha pubblicato sul «Volksbote» la lista delle vittime dei nazisti. Dal settembre 1943 fino alla fine della guerra furono giustiziati 21 sudtirolesi, 140 finirono in carcere e 166 furono spediti in campi di concentramento.)

L’Alto Commissario costituì dei reggimenti di polizia nei quali furono arruolati anche i «Dableiber», nonostante questi fossero cittadini italiani. Oggi so che l’arruolamento dei «Dableiber» in unità militari tedesche ha rappresentato una grave violazione del diritto internazionale.

Nel marzo 1944 fui convocato, assieme ad altri «Dableiber» di età che andava dai 16 ai 50 anni alla visita di leva. Fui ritenuto abile ed era certo che presto sarei dovuto partire militare. A fine maggio arrivò la cartolina precetto; dovevo presentarmi il primo giugno presso il reggimento di polizia di Silandro. Disperato cercai una via d’uscita, poiché avevo nel frattempo avuto notizia delle infinite atrocità commesse dal regime nazionalsocialista. Decisi così di seguire i consigli di alcuni amici e di rifugiarmi in montagna. Essi promisero di rifornirmi di viveri. Di notte avrei potuto recarmi da uno di questi amici a prendermi del latte.

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La casa paterna a Reinswald

E venne il giorno nel quale dovevo partire. Feci la valigia. Non potevo farmi vedere da nessuno perché nella valigia ci misi solamente lo zaino e un po’ di viveri. La mattina raggiunsi Sarentino. Là mi stava già aspettando un informatore dei nazisti che voleva «aiutarmi», affinché io raggiungessi davvero Bolzano. Mi accompagnò fino a Bolzano e là mi spiegò dettagliatamente quando e da dove partiva il treno per Silandro. Finalmente me ne liberai. Nascosi la valigia all’osteria del «Cavallino bianco» in via Bottai e con lo zaino raggiunsi la stazione. Mi ero informato già prima sulle partenze dei treni per il Brennero. Scesi a Freienfeld prima di Vipiteno e da lì raggiunsi Maria Trens, dove pregai per un futuro più felice. Più tardi ripresi il treno e tornai a Varna sopra Bressanone e da lì m’incamminai, lungo il sentiero Schalderer, in direzione delle mia terra natìa.

E qui mi capitò il primo sciagurato contrattempo.

Nel bosco, lungo una stretta curva fatta dal sentiero, senza possibilità per me di cambiare direzione, incrociai un noto nazista del mio paese. Ci salutammo e continuammo per la nostra strada, lui scendendo io salendo. Era un bel pasticcio. Sapevo che mi avrebbe denunciato non appena fosse arrivata notizia da parte delle autorità militari che io non mi ero presentato a Silandro. Dovevo farmi venire un’idea. Pensai che era bene che per un po’ ritornassi a casa. Raggiunsi allora il maso dove stavo prima e raccontai che cosa mi era successo. Per una settimana lavorai lì nel maso. Sabato dissi alla gente del maso di aver ricevuto posta e che lunedì dovevo andarmene. Per i contadini del maso sarebbe stato troppo pericoloso tenermi ancora lì.

Alle tre della mattina di lunedì partii per la montagna con i viveri necessari, una pentola, una ciotola e un cucchiaio nello zaino. Nascosto lassù volevo attendere la fine della guerra. Il primo giorno mi parve infinitamente lungo. Ripensai con precisione alle cose a cui dovevo rinunciare e ai pericoli ai quali mi stavo esponendo. Nessuno doveva vedermi. Nessuno doveva sapere che non mi ero presentato ad eccezione dei pochi amici a cui l’avevo confidato prima. Solo di notte avrei potuto recarmi da certe persone per ritirare dei viveri. I pasti erano frugali. Raramente mangiavo qualcosa di caldo, giacché dovevo essere molto prudente nell’accendere dei fuochi. Il fumo poteva tradire il mio nascondiglio. Quasi sempre mi preparavo dei canederli che però erano troppo compatti mancandomi molti ingredienti. Quello che rimaneva lo mangiavo il giorno dopo. Quando più tardi, ad estate inoltrata, iniziarono a maturare i frutti del bosco, cucinavo mosa e polenta, condite con mirtilli neri e lamponi. Burro e formaggio me li procurava quasi sempre mio fratello Flor che faceva il malgaro sull’altro versante della montagna. Un altro «fornitore» era mio cugino Luis (Alois Brugger del maso Bachmann), ma ce n’erano molti altri.

C’era il mio amico della val d’Isarco, Felix Oberrauch (di Latzfons), che a quel tempo faceva il pastore presso la malga dove stavo. Egli mi ha assistito con parole e fatti.

Ero costretto a cambiare spesso posto. Dormire sempre nello stesso posto sarebbe stato troppo pericoloso. Utilizzavo perciò alternativamente dei ricoveri per il fieno e una distilleria di mugolio abbandonata. Così passò mese dopo mese e mi ero abituato a molte cose. Un giorno, gironzolando nel bosco, scorsi con grande spavento due uomini dietro un albero. Cercai di svignarmela sull’istante ma già uno mi richiamò: «Fermati Franz, non avere paura!» Riconobbi la voce. Era il «Krotzer-Luis» di Villandro che avevo conosciuto quando lavoravo nella distilleria di mugolio nella quale mi stavo nascondendo già da settimane. Un po’ incerto e titubante mi avvicinai ai due. Luis mi rassicurò di non avere paura, nemmeno del suo compagno, giacché era un suo amico. Non mi fidai del tutto dei due e mi tenni prudentemente a una distanza di due tre metri. Chiesi loro cosa facessero qui. Mi risposero che erano di pattuglia sull’alpe di Villandro. Poiché là non accadeva nulla avevano superato il passo e le montagne di Durnholz.

Contro la noia avevo trovato un’occupazione adatta che necessitava di pochi attrezzi e di poco spazio. Incidevo accendini, scatole per il tabacco e per i fiammiferi e molti altri oggetti. Spesso mi mettevo a lavorare seduto su un grande abete rosso. Cercavo un grande ramo molto in alto, dove nessuno poteva vedermi e mi sedevo; sul ramo più vicino fissavo la mola a mano. Così avevo una bella vista e lavorando potevo guadagnare i soldi necessari per comperarmi da mangiare.

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Durante il periodo in cui era nascosto sui monti, Franz Thaler faceva passare il tempo incidendo oggetti. Il manico del coltello e gli ornamenti incisi risalgono a quel periodo

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Una volta aiutai un contadino nella raccolta del fieno, in un luogo dove non passava strada. Stavo sul carro e continuavo a guardarmi intorno nel caso ci fosse qualcuno. Poco dopo aver iniziato il lavoro, vidi un uomo, a una distanza di 150 metri, che si stava avvicinando. Avvisai gli altri e con passo veloce mi avviai in direzione del bosco. A quel tempo erano ormai in molti a sapere che mi ero nascosto in montagna. L’uomo che si era avvicinato era un informatore dei nazisti. Lo avevo riconosciuto subito. Chiese agli altri chi fosse stato lì con loro e quando questi non gli vollero rispondere, affermò di avermi riconosciuto.

Ammonì poi quella gente di essere più prudenti. Lavorare con persone come me era severamente proibito.