GIULIO VERNE

INTORNO ALLA LUNA

SEGUITO
DI
DALLA TERRA ALLA LUNA

© 2020 Mauro Liistro Editore

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ISBN: 9783968580746

CAPITOLO PRELIMINARE.
Il quale riassume la prima parte di quest’opera
per servire di prefazione alla seconda.

Nel corso dell’anno 186…, il mondo intero fu singolarmente commosso da un tentativo scientifico senza precedenti negli annali della scienza. I membri del GunClub, circolo di artiglieri fondato a Baltimora dopo la guerra d’America, aveva avuto l’idea di mettersi in comunicazione con la Luna, – sì, con la Luna, – lanciandole una palla di cannone. Il loro presidente Barbicane, promotore dell’intrapresa, avendo consultato a tal uopo gli astronomi dell’Osservatorio di Cambridge, prese tutti i provvedimenti necessari al buon esito di quella straordinaria impresa, dichiarata realizzabile dalla maggioranza delle persone competenti. Dopo aver promosso una sottoscrizione pubblica, che fruttò circa trenta milioni di franchi, egli incominciò i suoi giganteschi lavori.

Secondo la memoria redatta dai membri dell’Osservatorio, il cannone destinato a lanciare il proiettile doveva essere collocato in un paese situato tra 0 e 28 gradi di latitudine nord o sud, affine di mirare la Luna allo zenit. La palla doveva essere animata di una velocità iniziale di dodicimila Yard (misura anglosassone equivalente a poco meno di un metro) per minuto secondo. Lanciato il 1º dicembre, alle undici meno tredici minuti e venti secondi di sera, essa doveva incontrare la Luna quattro giorni dopo la sua partenza, il 5 dicembre, a mezzanotte in punto, nell’istante stesso ch’essa si troverebbe nel suo perigeo, cioè alla sua distanza più prossima alla Terra, ossia esattamente ad ottantaseimila quattrocentodieci leghe.

I principali membri del GunClub, il presidente Barbicane, il maggiore Elphiston, il segretario J. T. Maston, ed altri dotti tennero parecchie sedute nelle quali vennero discusse la forma e il composto della palla, la disposizione e la natura del cannone, la qualità e la quantità della polvere da impiegarsi. Fu stabilito: 1º che il proiettile sarebbe un obice d’alluminio del diametro di cent’otto pollici, e di uno spessore di dodici pollici alle pareti; che peserebbe diciannovemila duecentocinquanta libbre; 2º che il cannone sarebbe una Columbiade in ferro fuso della lunghezza di novecento piedi, che sarebbe colato addirittura nel suolo; 3º che la carica consisterebbe in quattrocentomila libbre di cotone fulminante, che sviluppando sei miliardi di litri di gas sotto il proiettile, lo innalzerebbero facilmente verso l’astro delle notti.

Risolte queste questioni, il presidente Barbicane, coadiuvato dall’ingegnere Murchison, fece la scelta di una località situata nella Florida a 27° 7’ di latitudine nord e 5° 7’ di longitudine ovest. Fu lì che, dopo lavori meravigliosi, la Columbiade venne fusa con pieno successo.

Le cose erano a questo punto, allorché sopravvenne un incidente che centuplicò l’importanza attribuita a quella grande intrapresa.

Un Francese, parigino, artista altrettanto faceto quanto audace, domandò di rinchiudersi in una palla per andare alla Luna e fare una ricognizione del satellite terrestre. Quell’intrepido avventuriero si chiamava Michele Ardan. Egli arrivò in America, fu ricevuto con entusiasmo, tenne dei meetings, si vide portare in trionfo, riconciliò il presidente Barbicane col suo mortale nemico il capitano Nicholl e, come pegno di riconciliazione, li decise ad imbarcarsi con lui nel proiettile.

La proposta fu accettata. Si modificò la forma della palla. Essa divenne cilindro-conica. Si munì quella specie di vagone aereo di molle potenti e di tramezzi facili a spezzarsi, che dovevano attutire il contraccolpo della partenza. Lo si provvide di viveri per un anno, d’acqua per alcuni mesi, di gas per alcuni giorni. Un apparecchio automatico fabbricava e somministrava l’aria necessaria alla respirazione dei tre viaggiatori. In pari tempo il GunClub faceva costruire, sopra una delle più alte sommità delle Montagne Rocciose, un gigantesco telescopio, che avrebbe permesso di seguire il proiettile nel suo tragitto attraverso lo spazio. Tutto era pronto.

Il 1º dicembre, all’ora fissata, in mezzo ad un concorso straordinario di spettatori, la partenza ebbe luogo, e, per la prima volta, tre esseri umani, lasciando il globo terrestre, si lanciarono verso gli spazi interplanetari colla quasi certezza di giungere alla loro meta. Quegli audaci viaggiatori, Michele Ardan, il presidente Barbicane e il capitano Nicholl, dovevano effettuare il loro tragitto in novantasette ore, tredici minuti e venti secondi. Cosicché il loro arrivo alla superficie del disco lunare non poteva aver luogo che il 5 dicembre, a mezzanotte, all’istante preciso nel quale la Luna sarebbe piena, e non il 4, come avevano annunziato alcuni giornali male informati.

Ma, circostanza inaspettata, la detonazione prodotta dalla Columbiade ebbe per effetto immediato di sconvolgere l’atmosfera terrestre, accumulandovi un’enorme quantità di vapori; fenomeno che suscitò l’indignazione generale, poiché la Luna fu velata per parecchie notti agli sguardi dei suoi contemplatori.

Il degno J. T. Maston, il più valido amico dei tre viaggiatori, partì per le Montagne Rocciose in compagnia dell’onorevole J. Belfast, direttore dell’Osservatorio di Cambridge, e raggiunse la stazione di Long’s Peak, ove era collocato il telescopio che avvicinava la Luna alla distanza di due leghe. L’onorevole segretario del GunClub voleva osservare egli stesso il veicolo dei suoi audaci amici.

L’accumulazione delle nubi nell’atmosfera impedì qualunque osservazione durante i giorni 5, 6, 7, 8, 9 e 10 dicembre. Si credette anzi l’osservazione dovesse essere rimandata al 3 Gennaio dell’anno seguente, poiché la Luna, entrando nel suo ultimo quarto l‘11, non presenterebbe più allora che una parte decrescente del suo disco, insufficiente per poter seguire la traccia del proiettile. Ma finalmente, con soddisfazione generale, un forte uragano ripulì l’atmosfera nella notte dall‘11 al 12 dicembre, e la Luna, per metà illuminata, si delineò nettamente sul fondo nero del cielo.

Quella notte stessa, un telegramma veniva spedito dalla stazione di Long’s Peak da J. T. Maston e Belfast ai signori Membri della presidenza dell’Osservatorio di Cambridge.

Ora, che cosa annunziava quel telegramma?

Annunziava: che l‘11 dicembre, alle otto e quarantasette minuti di sera, il proiettile lanciato dalla Columbiade di Stone’s Hill era stato visto dai signori Belfast e J. T. Maston, – che la palla, deviata per una causa sconosciuta, non aveva mica raggiunto la sua meta, ma che le era passata sì vicino da essere trattenuta dall’attrazione lunare: – che il suo movimento rettilineo si era mutato in movimento circolare, e che allora, trascinata in un’orbita ellittica intorno all’astro delle notti, ne era divenuta il satellite.

Il telegramma soggiungeva che gli elementi del nuovo astro non si erano potuti ancora calcolare; – infatti tre osservazioni fatte con l’astro in tre diverse posizioni furono necessarie per determinare questi elementi. Poscia esso accennava che la distanza che separava il proiettile dalla superficie lunare «poteva» essere valutata di dodicimila ottocento trentatré miglia all’incirca, cioè quattromila cinquecento leghe.

Esso finiva emettendo questa doppia ipotesi: O l’attrazione della Luna finirebbe per vincerla, ed allora i viaggiatori raggiungerebbero la loro meta; od il proiettile, mantenuto in un’orbita immutabile, graviterebbe intorno al disco lunare sino alla fine dei secoli.

In queste diverse alternative, quale sarebbe la sorte dei viaggiatori? Essi avevano viveri per qualche tempo, è vero. Ma supponendo anche il buon esito della loro temeraria impresa, in qual modo ritornerebbero? Potrebbero mai ritornare? Si avrebbe loro notizie? Queste questioni, dibattute dalle penne più dotte del tempo, appassionarono il pubblico.

Convien far qui un’osservazione che dev’essere ponderata dagli osservatori troppo premurosi. Allorché uno scienziato annunzia al pubblico una scoperta puramente speculativa, non c’è prudenza che basti. Nessuno è obbligato a scoprire né un pianeta, né una cometa, né un satellite, e chi si sbaglia, in tal caso, si espone giustamente ai frizzi della folla. Talchè meglio è aspettare, ed è ciò che avrebbe dovuto fare l’impaziente J. T. Maston prima di lanciare da un capo all’altro del mondo quel telegramma che, secondo lui, diceva l’ultima parola di quella intrapresa.

Infatti quel telegramma conteneva due sorta di errori, come si verificò più tardi: 1º Errori di osservazioni, in quanto concerneva la distanza del proiettile dalla superficie della Luna, poiché l‘11 dicembre era impossibile vederlo, e ciò che J. T. Maston aveva veduto, o creduto di vedere, non poteva essere la palla della Columbiade. 2º Errori di teorica circa la sorte riservata al detto proiettile, poiché il farne un satellite della Luna era un mettersi in assoluta contraddizione colle leggi della meccanica razionale.

Una sola ipotesi degli osservatori di Long’s Peak poteva avverarsi: quella che prevedeva il caso in cui i viaggiatori – se esistevano ancora – combinerebbero i loro sforzi con l’attrazione lunare in modo da raggiungere la superficie del disco.

Ora, quegli uomini, intelligenti quanto arditi, erano sopravvissuti al terribile contraccolpo della partenza, ed è il loro viaggio nella palla-vagone che verrà ora narrato nei suoi più drammatici, come nei suoi più bizzarri particolari. Questo racconto distruggerà molte illusioni e molte previsioni; ma darà un’esatta idea delle peripezie riservate ad una simile intrapresa, e farà spiccare gl’istinti scientifici di Barbicane, le risorse dell’industrioso Nicholl e l’umoristica audacia di Michele Ardan.

Inoltre esso proverà che il loro degno amico, J. T. Maston, perdeva il suo tempo allorché, curvo sul gigantesco telescopio, osservava il cammino della Luna attraverso gli spazi stellari.

CAPITOLO I.
Dalle 10 e 20 alle 10 e 47 minuti di sera.

Al batter delle dieci, Michele Ardan, Barbicane e Nicholl tolsero commiato dai molti amici che lasciavano sulla Terra. I due cani, destinati ad acclimare la razza canina sui continenti lunari, erano già imprigionati nel proiettile. I tre viaggiatori s’accostarono all’orifizio dell’enorme tubo di ghisa, ed un argano volante li calò fino al cappello conico della palla.

Lì, un’apertura fatta all’uopo diede loro accesso nel vagone d’alluminio. I paranchi dell’argano furono tratti con forza al di fuori, e la gola della Columbiade fu in un istante liberata della sua ultima impalcatura.

Nicholl, come fu introdotto coi suoi compagni nel proiettile, si adoperò a chiuderne l’apertura per mezzo di una forte piastra trattenuta internamente da potenti viti di pressione. Altre piastre, solidamente adattate, coprivano i vetri lenticolari degli spiragli. I viaggiatori, chiusi ermeticamente nel loro carcere di metallo, erano immersi in una profonda oscurità.

«Ed ora, cari compagni, disse Michele Ardan, facciamo come se fossimo in casa nostra. Io sono un uomo casalingo, io, e fortissimo in fatto di amministrazione domestica. Si tratta di trarre il miglior partito possibile dalla nostra nuova abitazione e di trovarvi i nostri comodi. E prima di tutto cerchiamo di vederci un po’ più chiaro. Che diavolo! il gas non fu già inventato per le talpe.»

Così dicendo, lo spensierato giovinotto fece spiccare la fiamma di uno zolfanello che fregò alla suola di un suo stivale; poi l’accostò al becco fissato al recipiente nel quale l’idrogeno carbonato, condensato ad alta pressione, poteva bastare a fornir luce e calore alla palla per centoquarantaquattro ore, ossia sei giorni e sei notti.

Il gas si accese. Il proiettile, così illuminato, apparve come una camera comodissima, imbottita alle pareti, arredata con divani circolari, e la cui volta s’arrotondava in forma di cupola.

Gli oggetti che conteneva, armi, strumenti, utensili, saldamente trattenuti all’imbottitura, dovevano sopportare impunemente l’urto della partenza.

Tutte le precauzioni umanamente possibili erano state prese per condurre a buon fine così temerario tentativo.

Michele Ardan esaminò tutto e si dichiarò soddisfattissimo della sua abitazione.

«È una prigione, disse, ma una prigione che viaggia, e col diritto di porre il naso alla finestra; io farei volentieri un contratto per cento anni! Sorridi, Barbicane? Hai dunque un pensiero colato? Dici forse, tra te, che questa prigione potrebbe essere la nostra tomba? Tomba, sia pure, io non la baratterei con quella di Maometto, che è librata nello spazio e non cammina!»

Mentre Michele Ardan così parlava, Barbicane e Nicholl facevano i loro ultimi preparativi.

Il cronometro di Nicholl segnava le dieci e venti minuti di sera allorché i tre viaggiatori si furono definitivamente murati nella loro palla. Codesto cronometro era regolato fino ad un decimo di secondo con quello dell’ingegnere Murchison. Barbicane lo consultò.

«Amici miei, disse, sono le dieci e venti minuti. Alle 10 e 47 Murchison lancierà la scintilla elettrica sul filo che comunica con la carica della Columbiade. In quel momento preciso noi lascieremo il nostro sferoide. Abbiamo dunque ancora ventisette minuti da stare sulla terra.

— Ventisei minuti e tredici secondi, rispose il metodico Nicholl.

— Ebbene! esclamò Michele Ardan con tono giocondo, in ventisei minuti si fanno tante cose! Si ponno discutere le più grandi quistioni di morale o di politica, ed anche risolverle. Ventisei minuti bene impiegati valgono meglio che ventisei anni in ozio! Alcuni secondi di un Pascal o di un Newton sono più preziosi di tutta l’esistenza dell’indigesta folla degli imbecilli….

— E ne conchiudi, eterno parlatore? chiese il presidente Barbicane.

— Ne conchiudo che abbiamo ventisei minuti, rispose Ardan.

— Ventiquattro soltanto, disse Nicholl.

— Ventiquattro, se tu ci tieni, mio bravo capitano, ribattè Ardan, ventiquattro minuti durante i quali si potrebbe approfondire….

— Michele, disse Barbicane, durante il nostro tragitto avremo tutto il tempo necessario per approfondire le più ardue questioni. Ora occupiamoci della partenza.

— Non siano forse pronti?

— Senza dubbio. Ma ci sono ancora alcune precauzioni da prendere per attenuare il più possibile il primo urto!

— Non abbiamo noi gli strati d’acqua disposti fra i tramezzi, la cui elasticità deve proteggerci quanto basti?

— Lo spero, Michele, rispose lentamente Barbicane, ma non ne sono molto sicuro.

— Ah! il burlone! esclamò Michele Ardan. Egli spera!… Non è molto sicuro!… Ed aspetta proprio il momento in cui siamo imbottati per fare questa deplorabile confessione! Ma io domando di andarmene!

— E con qual mezzo? replicò Barbicane.

— Infatti! disse Michele Ardan, è difficile. Noi siamo nel treno, ed il fischio del conduttore risuonerà fra ventiquattro minuti….

— Venti, disse Nicholl.»

Per alcuni istanti, i tre viaggiatori si guardarono in faccia. Poi esaminarono gli oggetti imprigionati con essi.

«Ogni cosa è a suo posto, disse Barbicane. Si tratta ora di decidere in qual modo ci collocheremo per sopportare meglio l’urto della partenza. La posizione da prendere non è cosa indifferente, e per quanto possibile conviene impedire che il sangue ci affluisca con troppa violenza alla testa.

— Giusto, disse Nicholl.

— Allora, rispose Michele Ardan, pronto ad aggiungere l’esempio alla parola, mettiamoci colla testa in giù e i piedi in alto, alla maniera dei clowns del Great-Circus!

— No, disse Barbicane, ma sdrajamoci sul fianco. Così resisteremo meglio all’urto. Notate bene che al momento della partenza della palla, sia che noi ci troviamo dentro o dinanzi, è all’incirca tutt’uno.

— Se non è che all’incirca, tutt’uno, mi rassicuro, replicò Michele Ardan.

— Approvate la mia idea, Nicholl? chiese Barbicane.

— Interamente, rispose il capitano. Ancora tredici minuti e mezzo.

— Non è un uomo, codesto Nicholl! esclamò Michele, è un cronometro a secondi, a scappamento, con otto pietre….»

Ma i suoi compagni non l’ascoltavano più e prendevano le ultime disposizioni con un sangue freddo incredibile. Avevano l’aria di due viaggiatori metodici, montati in un vagone, che cercassero di accomodarsi il meglio possibile. Si può davvero domandare di qual materia son fatti quei cuori americani, ai quali l’accostarsi del più spaventevole pericolo non aggiunge neanco una pulsazione!

Tre cuccette massiccie e solidamente condizionate erano state collocate nel proiettile. Nicholl e Barbicane le disposero al centro del disco che formava il pavimento mobile. Lì dovevano sdrajarsi i tre viaggiatori pochi momenti prima della partenza.

In quel frattempo Ardan, non potendo stare immobile, girava nella sua stretta prigione come una belva in gabbia, ciarlando con gli amici, parlando ai suoi cani, Diana e Satellite, ai quali, come si vede, aveva dato da qualche tempo questi nomi significativi.

«Eh! Diana! Eh! Satellite! gridava egli eccitandoli. Voi state dunque per mostrare ai cani seleniti i bei modi dei cani della Terra! Questo sì che farà onore alla razza canina! Perdio! Se mai ritorniamo quaggiù, voglio portare con me un tipo incrociato di «moondogs» che farà furore!

— Se ci sono cani nella Luna, disse Barbicane.

— Ci sono, affermò Michele Ardan, come ci sono cavalli, vacche, asini, galline. Scommetto che ci troviamo delle galline!

— Cento dollari che non ne troveremo, disse Nicholl.

— Accettato, capitano, rispose Ardan stringendo la mano di Nicholl. Ma, a proposito, tu hai già perduto tre scommesse col nostro presidente, poiché i fondi necessari all’impresa furono provveduti, perché la fusione riuscì, e finalmente perché la Columbiade fu caricata senza accidenti, ossia seimila dollari.

— Sì, rispose Nicholl. Dieci ore, trentasette minuti e sei secondi.

— Resta inteso, capitano. Ebbene, in meno di un quarto d’ora, tu dovrai ancora contare novemila dollari al presidente; quattromila perché la Columbiade non scoppierà, e cinquemila perché la palla s’innalzerà a più di sei miglia nell’aria.

— I dollari son qua, rispose Nicholl battendo sulla tasca dell’abito: non domando che di pagare.

— Via, Nicholl, vedo che sei un uomo d’ordine, cosa ch’io non potei mai essere; ma insomma hai fatto una serie di scommesse, lascia ch’io te lo dica, poco vantaggiose per te.

— E perché? domandò Nicholl.

— Perché se guadagni la prima, la Columbiade avrà scoppiato e la palla con essa, e Barbicane non sarà più lì per pagarti i tuoi dollari.

— La mia posta è depositata alla Banca di Baltimora, rispose semplicemente Barbicane, e se mancherà Nicholl, sarà pagata ai suoi eredi.

— Ah! uomini pratici! esclamò Michele Ardan, spiriti positivi! Io vi ammiro tanto più in quanto non vi comprendo.

— Dieci ore e quarantadue, disse Nicholl.

— Non mancano che cinque minuti, rispose Barbicane.

— Si, cinque piccoli minuti! replicò Michele Ardan. E noi siamo chiusi in una palla in fondo ad un cannone di novecento piedi. E sotto questa palla sono ammucchiato quattrocentomila libbre di cotone fulminante, che equivalgono ad un milione e seicentomila libbre di polvere ordinaria! E l’amico Murchison, col suo cronometro in mano, l’occhio fisso sull’ago, il dito appoggiato sull’apparecchio elettrico, conta i secondi e sta per lanciarci negli spazi interplanetari!…

— Basta, Michele, basta! interruppe Barbicane con voce grave. Prepariamoci. Pochi istanti soltanto ci separano dal momento supremo. Una stretta di mano, amici miei.

— Sì, gridò Michele Ardan,» più commosso che non volesse parere.

I tre arditi compagni si unirono in un’ultima stretta.

«Dio ci guardi!» disse il religioso Barbicane.

Michele Ardan e Nicholl si sdraiarono sulle cuccette disposte al centro del disco.

«Dieci e quarantasette! mormorò il capitano.

— Venti secondi ancora!» disse Barbicane, e spento rapidamente il gas si coricò accanto ai compagni.

Il profondo silenzio era solo interrotto dalle battute del cronometro che segnava i secondi.

D’improvviso, accadde un urto spaventevole e il proiettile, sospinto da sei miliardi di litri di gas sviluppati dall’accensione del pirossilo, si sollevò nello spazio.

CAPITOLO II.
La prima mezz’ora.

Che cosa era accaduto? Quale effetto aveva prodotto quella spaventosa scossa? L’ingegnosità dei costruttori del proiettile aveva ottenuto felice risultato? L’urto s’era esso ammorzato in grazia delle molle, dei quattro zaffi, dei cuscini d’acqua e dei fragili tramezzi? Si era riusciti a domare la terribile spinta di quella velocità iniziale di undicimila metri, che sarebbe bastato a traversare Parigi o Nuova-York in un secondo? Quest’è evidentemente la domanda che rivolgevano a sé stessi i mille testimoni di quella scena commovente. Essi dimenticavano lo scopo del viaggio, per non pensare che ai viaggiatori! E se taluno di essi, – J. T. Maston, per esempio – avesse potuto gettare uno sguardo nell’interno del proiettile, che avrebbe egli visto?

Nulla per allora. L’oscurità era profonda nella palla, ma le sue pareti cilindro-coniche avevano superiormente resistito. Non uno squarcio, non una flessione, non una deformazione. L’ammirabile proiettile non s’era nemmeno alterato all’intensa deflagrazione delle polveri, né liquefatto, come pareva si temesse, in pioggia d’alluminio.

Nell’interno, poco disordine, in complesso. Alcuni oggetti erano stati lanciati violentemente verso la volta; ma i più importanti non parevano aver sofferto dall’urto. I loro sostegni erano intatti.

Sul disco mobile, sceso fino alla culatta, dopo la frattura dei tramezzi e l’uscita dell’acqua, tre corpi giacevano immoti. Barbicane, Nicholl, Michele Ardan respiravano ancora? O il proiettile non era più che una bara di metallo, trasportante tre cadaveri nello spazio?

Alcuni minuti dopo la partenza della palla, uno di quei corpi fece un movimento; le sue braccia si agitarono, la sua testa si drizzò, e riuscì a mettersi in ginocchio. Era Michele Ardan. Egli si palpò, pronunciando un «hem» sonoro, poi disse:

«Michele Ardan, completo! Vediamo gli altri!»

Il coraggioso francese volle alzarsi; ma non poté reggersi in piedi. La sua testa vacillava, il suo sangue, violentemente iniettato, l’acciecava: era come un uomo ubbriaco.

«Brr! fece egli. Ciò mi produce lo stesso effetto di due bottiglie di Corton. Senonchè è forse meno piacevole a mandar giù!»

Poi, passandosi più volte la mano sulla fronte e fregandosi la tempia, egli gridò con voce ferma:

«Nicholl, Barbicane!»

Aspettò ansiosamente. Nessuna risposta. Nemmeno un sospiro che indicasse che il cuore dei suoi compagni batteva ancora. Ripetè la sua chiamata. Uguale silenzio.

«Diavolo! disse. Hanno l’aria d’essere caduti da un quinto piano col capo in giù! Evvia! aggiunse con la imperturbabile fiducia che nulla poteva fiaccare, se un Francese ha potuto levarsi sulle ginocchia, due Americani non saranno imbarazzati a rimettersi in piedi. Ma, prima di tutto, rischiariamo la situazione.»

Ardan sentiva la vita ritornargli a fiotti. Il suo sangue si calmava e ripigliava la circolazione consueta. Novelli sforzi lo riposero in equilibrio. Egli riuscì a levarsi in piedi, trasse di tasca uno zolfanello e lo infiammò sfregandone il fosforo. Indi accostandolo al becco, lo accese. Il recipiente non aveva punto sofferto. Il gas non era sfuggito; il suo puzzo, del resto, lo avrebbe tradito, ed in questo caso Michele Ardan non avrebbe impunemente mosso un zolfanello acceso in quell’ambiente pieno di idrogeno. Il gas, combinato coll’aria, avrebbe prodotto un miscuglio scoppiante, e l’esplosione avrebbe compiuto ciò che l’urto aveva forse incominciato. Appena acceso il becco, Ardan si chinò sui corpi dei compagni. Quei corpi erano rovesciati l’un sull’altro, come masse inerti. Nicholl disopra, Barbicane sotto.

Ardan raddrizzò il capitano, l’appoggiò contro un divano, e lo strofinò vigorosamente. Quest’operazione, fatta con intelligenza, rianimò Nicholl, il quale aprì gli occhi, ricuperò sull’istante la sua calma, ed afferrò la mano di Ardan. Poi guardandosi intorno:

«E Barbicane? domandò egli.

— Ciascuno alla sua volta, rispose tranquillamente Michele Ardan. Ho incominciato da te perché tu eri sopra. Ora passiamo a Barbicane.»

Ciò detto, Ardan e Nicholl sollevarono il presidente del GunClub e lo deposero sul divano. Barbicane pareva aver sofferto più dei suoi compagni. Gli era scorso sangue, ma Nicholl si rassicurò constatando che quell’emorragia non proveniva che da una lieve ferita alla spalla. Una semplice scorticatura ch’egli compresse accuratamente.

Nondimeno, Barbicane stette alcun tempo prima di riaversi: del che si spaventarono i suoi due amici, che non gli risparmiavano le frizioni.

«Eppure respira! diceva Nicholl, accostando l’orecchio al petto del ferito.

— Sì, rispondeva Ardan, respira come un uomo che ha una certa abitudine di codesta operazione quotidiana. Strofiniamo, Nicholl, strofiniamo con vigore.»

E i due infermieri improvvisati fecero tanto e così bene, che Barbicane ricuperò l’uso dei sensi. Egli aprì gli occhi, si raddrizzò, prese la mano dei suoi due amici, e per sua prima parola:

«Nicholl, domandò egli, si cammina?»

Nicholl e Ardan si guardarono in faccia. Essi non avevano ancora pensato al proiettile. La loro prima occupazione era stata per i viaggiatori, non già per veicolo.

«Infatti camminiamo o no? ripeté Michele Ardan.

— Oppure riposiamo tranquillamente sul suolo della Florida? domandò Nicholl.

— Od in fondo al golfo del Messico? aggiunse Michele Ardan.

— Questo poi!» esclamò il presidente Barbicane.

E la doppia ipotesi suggerita dai compagni ebbe per effetto immediato di richiamarlo di un subito al sentimento.

Checché ne sia non si poteva ancora dir nulla di sicuro circa la situazione della palla. La sua immobilità apparente, la mancanza di comunicazione coll’esterno, non permettevano di risolvere la questione. Forse il proiettile descriveva la sua traiettoria attraverso lo spazio; forse, dopo una breve ascensione era caduto sulla Terra od anco nel golfo del Messico; caduta che la poca larghezza della penisola fioridiana rendeva possibile.

Il caso era grave, il problema interessante. Bisognava risolverlo al più presto. Barbicane, esaltato e trionfante, coll’energia morale della debolezza fisica, si rialzò. Si pose in ascolto. Al di fuori, silenzio profondo. Ma la massiccia imbottitura bastava ad intercettare tutti i rumori della Terra. Tuttavia, una circostanza impressionò Barbicane. La temperatura nell’interno del proiettile era singolarmente elevata. Il presidente trasse un termometro dalla busta che lo difendeva, e lo consultò. Lo strumento segnava quarantacinque gradi centigradi.

«Sì, esclamò egli allora, sì, noi camminiamo! Questo soffocante calore trasuda attraverso le pareti del proiettile. È prodotto dallo sfregamento contro gli strati atmosferici. Presto scemerà, poiché noi ci libriamo già nel vuoto, e dopo aver rischiato di soffocare, subiremo freddi intensi.

— Come, domandò Michele Ardan, a parer tuo, Barbicane, noi saremmo fin d’ora fuori dei confini dell’atmosfera terrestre.

— Senza alcun dubbio Michele. Ascoltami. Sono le dieci e cinquantacinque minuti. Noi siamo partiti da otto minuti circa. Ora, se la nostra velocità iniziale non fosse stata diminuita dallo sfregamento, sei secondi ci avrebbero bastato per oltrepassare le sedici leghe d’atmosfera che circondano lo sferoide.

— Benissimo, rispose Nicholl; ma in quale proporzione stimate voi la diminuzione della velocità per lo sfregamento?

— Nella proporzione di un terzo, Nicholl, rispose Barbicane. Tale diminuzione è considerevole, ma, secondo i miei calcoli, è tale. Se dunque noi abbiamo avuto una velocità iniziale di undicimila metri all’uscire dall’atmosfera, questa velocità sarà ridotta a settemila trecentotrentadue metri. Checché ne sia, noi abbiamo già oltrepassato codesto intervallo, e….

— E allora, disse Michele Ardan, l’amico Nicholl ha perduto le sue due scommesse; quattromila dollari, perciò la Columbiade non è scoppiata; cinquemila dollari, perché il proiettile si è sollevato ad un’altezza maggiore di sei miglia. Dunque Nicholl, disponiti a pagare.

— Accertiamo i fatti da prima, rispose il capitano, pagherò dopo. È probabilissimo che i ragionamenti di Barbicane siano esatti e ch’io abbia perduti i miei novemila dollari. Ma una nuova ipotesi mi si affaccia alla mente, ed essa annullerebbe la scommessa.

— Quale? chiese vivamente Barbicane.

— L’ipotesi che, per una ragione qualunque, non essendo stato appiccato il fuoco alle polveri, noi non fossimo partiti.

— Affè mia, capitano, esclamò Michele Ardan, ecco un’ipotesi degna del mio cervello! Non è punto seria! Forse che noi non siamo stati mezzo accoppati dalla scossa? Non t’ho forse io stesso richiamato in vita? E la spalla del presidente non sanguina forse ancora pel contraccolpo che l’ha ferito?

— Ne convengo, Michele, ripeté Nicholl, ma ho una sola domanda a fare.

— Ed è, mio capitano?

— Hai tu udita la detonazione che certo dovette essere formidabile?

— No, rispose Ardan molto sorpreso; infatti io non ho udito la detonazione.

— E voi Barbicane?

— Io neppure.

— Ebbene? soggiunse Nicholl.

— Infatti mormorò il presidente, perché non abbiamo noi udita la detonazione?»

I tre amici si guardarono in faccia con aria sconcertata. Si trovavano dinanzi ad un fenomeno inesplicabile. Pure il proiettile era partito, e per conseguenza la detonazione doveva essere avvenuta.

«Vediamo prima di tutto dove siamo, disse Barbicane; leviamo le impannate.»

Tosto si accinsero a questa operazione semplicissima. Le madreviti che mantenevano le chiavarde sulle lastre esteriori della finestrella di diritta cedettero sotto la pressione d’una chiave inglese. Le chiavarde furono spinte al difuori, e gli otturatori guarniti di cautsciù tapparono il buco che loro dava passaggio. La lastra esterna ricadde sulla cerniera come un portello di nave, ed apparve il vetro lenticolare che chiudeva la finestrella. Una finestrella identica si apriva nello spessore delle pareti sull’altra faccia del proiettile, un’altra nella cupola che lo terminava, e infine una quarta nel mezzo della culatta inferiore. Si poteva dunque osservare in quattro direzioni opposte: il firmamento dai vetri laterali, e più direttamente la Terra e la Luna dalle aperture dell’alto e del basso.

Barbicane e i suoi due compagni si erano tosto precipitati al vetro scoperto. Non un raggio di luce lo animava. Una profonda oscurità avvolgeva il proiettile. Il che non tolse che il presidente gridasse:

«No, amici miei, noi non siamo ricaduti sulla Terra! No, noi non siamo immersi nel fondo del golfo del Messico! Sì! noi saliamo nello spazio! Guardate quelle stelle che brillano nella notte e l’impenetrabile oscurità che si addensa fra la Terra e noi!

— Urrà! urrà!» gridarono ad una voce Michele Ardan e Nicholl.

Infatti le tenebre fitte provavano che il proiettile aveva lasciato la terra, perché il suolo, vivamente rischiarato allora dalla luce lunare, sarebbe apparso agli occhi dei viaggiatori nel caso essi riposassero alla sua superficie. Quell’oscurità dimostrava altresì che il proiettile aveva oltrepassato lo strato atmosferico, poiché in caso contrario la luce diffusa, sparsa nell’aria, avrebbe gettate sulle pareti metalliche un riflesso che pure mancava. Quella luce avrebbe rischiarato il vetro della finestrella, e quel vetro invece era oscuro. Il dubbio non era più lecito. I viaggiatori avevano lasciato la Terra.

«Ho perduto, disse Nicholl.

— E me ne rallegro con te, rispose Ardan.

— Ecco novemila dollari, disse il capitano traendo di tasca un mazzo di banconote.

— Volete una ricevuta? chiese Barbicane prendendo la somma.

— Se ciò non vi dispiace, rispose Nicholl.

— È più che regolare,» aggiunse Barbicane.

E, seriamente, flemmaticamente, come se si trovasse alla sua cassa il presidente trasse il taccuino, ne staccò un foglietto bianco, scrisse colla matita una ricevuta in regola, vi pose la data, la sottoscrisse e la consegnò al capitano, il quale la chiuse con cura nel suo portafogli.

Michele Ardan, togliendosi la berretta, s’inchinò senza dir motto innanzi ai suoi due compagni. Tanto formalismo in simili circostanze gli toglieva la parola. Egli non aveva mai visto nulla di così americano.